Con la sua riflessione che in questo periodo dell’anno, con il titolo “Tempo di zampogne”, evoca il tempo per eccellenza della pratica dello strumento, quello natalizio, Bruno Grulli torna a porre una questione sulla quale sono stati scritti fiumi di parole e altre ne saranno spese da parte di studiosi ed esperti della materia. Nel mio piccolo, guidata più dall’osservazione e dalla frequentazione degli ambienti zampognari che da studi organici e approfonditi, proverò a dare il mio modesto contributo alla discussione.
Ritengo senz’altro condivisibile l’affermazione secondo la quale le sempre più sporadiche apparizioni degli zampognari per le strade delle nostre città (non solo del Nord) in occasione delle festività natalizie possono essere considerate “residui” di una cultura in cui si intrecciano molteplici elementi: dalla transumanza (ma parlerei in generale di migrazioni stagionali di lunghissimo periodo e dalle molteplici forme) alla pratica di questue legate a ricorrenze devozionali di vario tipo oltre che a forme di professioni consistenti nell’esercizio di attività girovaghe (musicali e non solo) e comportanti spostamenti anche molto estesi sia dal punto di vista spaziale che temporale (A. Caccia, Le migrazioni degli zampognari molisani nei secoli XIX e XX, Rivista “Glocale”, Ed. Il Bene Comune, Campobasso 2015), dalla capacità di movimento (e di saper cogliere tutte le opportunità offerte dal ciclo calendariale) all’esigenza di trovare una soluzione al problema della sussistenza (G. Massullo, Storia del Molise,Donzelli ed., 2006 e M. Porcella, Con arte e con inganno. L’emigrazione girovaga nell’Appennino ligure emiliano, Sagep Libri & Comunicazione, 1998). Nutro tuttavia più di una perplessità sull’affermazione secondo la quale la tradizione non c’entra, anche se molto dipende da ciò che intendiamo per tradizione.
Senza entrare nel merito di un concetto la cui definizione non è sempre univoca e che richiederebbe una disamina più ampia e articolata di quella consentita dall’economia del presente commento, limito le mie brevi osservazioni al fenomeno che qui interessa – l’andare a suonare la zampogna nel periodo natalizio – nella due forme in cui il fenomeno stesso si è storicamente manifestato e in qualche misura ancora persiste: l’ una in forma itinerante e questuante, l’altra come prestazione a domicilio sulla base di un patto (e di un prezzo) determinato e rinnovato ogni anno mediante la “tradizionale” formula dell’ accaparrà l’ n’vere (letteralmente “accaparrare le novene”, in A. Caccia, La novena al tempo delle madonnelle, Utriculus n. 45/2008 e Le migrazioni degli zampognari…, cit.).
Nell’uno e nell’altro caso, come dimostra una vasta iconografia, la figura del pastore zampognaro nelle rappresentazioni visive della Natività e quella delle coppie canoniche (zampogna + ciaramella) immortalate nel corso dell’Ottocento da numerosi artisti nelle strade e davanti alle edicole votive ((madonnelle) di Roma costituiscono un topos talmente diffuso e introitato nell’immaginario collettivo da diventare uno degli elementi costitutivi della narrazione (e della tradizione) del Natale; tradizione quindi esso stesso, quali ne siano state e ne siano tuttora le motivazioni che lo sottendono e come tale vissuto e interpretato dagli zampognari. Ivi compresi quelli di nuova generazione che, a torto o a dritta (come si dice dalle mie parti), continuano a proporre una pratica (a Natale ci vuole la zampogna ) rimodellando e reinterpretando l’andar per novene con modalità (a partire dal secondo dopoguerra la forma itinerante e quella dello spettacolo hanno prevalso su quella a domicilio), suoni (il repertorio delle pastorali dell’Immacolata e del Natale è stato integrato con brani natalizi desunti sia dal repertorio della musica cosiddetta classica che da quello della musica cosiddetta leggera) e strumenti (vedasi il capitolo tuttora aperto delle modifiche apportate alla zampogna laziale e molisana), rispondenti al contesto, al gusto e alla sensibilità del nostro tempo. In altri termini, in maniera innovativa e ri-contestualizzata sotto diversi aspetti, tutti attinenti ai contenuti e al modo di esprimerli ma non alla sostanza del rapporto e del modo di sentire degli zampognari nei confronti della ricorrenza o dei valori (nello specifico della religiosità popolare) che hanno plasmato la tradizione del Natale e della zampogna legata al Natale.
In tutto ciò io vedo anche una testimonianza di quella “cultura operativa” che secondo la definizione datane dall’intellettuale calabrese Pasquino Crupi (Prefazione al volume di Renata Ceravolo, A sapi ‘a lapa) è “ un sapere, che contiene tutti gli assi per orientarsi nel mondo in cui si vive e rispetto al quale, come si conviene alla società della penuria, attrezza i mezzi per la sopravvivenza: con i suoi canti, che ricreano la forza-lavoro, con le sue formule di scongiuro, che allontanano le malattie dell’invidia, con i suoi modi di dire,che tolgono la musoneria della storia e restituiscono sorriso”. E, mi permetto di aggiungere, con le sue zampogne grazie alle quali, almeno a Natale – come annota Tilman Seebass commentando un dipinto di Leopold Robert che raffigura una coppia di zampognari in atto di suonare davanti a una madonnella romana ( il dipinto è riprodotto sulla copertina di utriculus n.45/2008 e il commento è nella Relazione alla conferenza su “ Northern Mediterranean Folk Music in the visual arts”, Università dell’Illinois 14-17 aprile 1988) gli zampognari diventano “musicisti elevati al rango di mediatori e di santi che redimono lo spettatore trascinandolo nel loro stato di adorazione esemplare”. Vi pare un’esagerazione? Forse lo è.
Ma,come in tutti i settori delle attività umane, anche nel mondo della zampogna vi sono zampognari e “soffiatori di zampogne” e, credetemi, l’esperienza vissuta e le interviste fatte dal Circolo a decine di zampognari di vecchia e nuova generazione mi confermano che sotto il profilo culturale ed affettivo il ruolo di annunciatori del e di mediatori con il sacro (santi in effetti non si reputano) gli zampognari sentono di svolgerlo, soprattutto quelli che hanno avuto e hanno tuttora la possibilità e la voglia di esercitare il servizio delle novene a domicilio (per quanto pochi ve ne sono ancora che lo fanno a Napoli e dintorni). E il fatto di percepire un compenso per tale servizio non è per nulla vissuto come una contraddizione o una diminutio . Non si dice forse anche a proposito dei preti che “senza soldi non si cantano messe?”.
La Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale ingloba i contenuti della tradizione nel concetto di intangible cultural heritage ( in italiano “patrimonio culturale immateriale”) definendolo al primo comma dell’articolo 2 come “ le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how -come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi associati agli stessi- che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana …”. Al secondo comma del medesimo articolo si precisa quindi che “ Per ‘salvaguardia’ s’intendono le misure volte a garantire la vitalità del patrimonio culturale immateriale, ivi compresa l’identificazione, la documentazione, la ricerca, la preservazione, la protezione, la promozione, la valorizzazione, la trasmissione, in particolare attraverso un’educazione formale e informale, come pure il ravvivamento dei vari aspetti di tale patrimonio culturale”.
Colpiscono, per quanto di specifico interesse in questo contesto, l’espressione “Questo patrimonio … è costantemente ricreato in risposta …” e i termini “vitalità” e “ravvivamento” che indicano, a mio parere, la chiara presa d’atto di una visione dinamica, attualizzata e attualizzante di ciò che definiamo “tradizione” o “tradizionale” associandolo a qualcosa di statico, che si ripete sempre uguale a se stesso mentre in realtà è sempre il frutto di come agiamo nel presente ciò che per varie ragioni abbiamo deciso di portarci dietro dal passato.
Pur tra torsioni e contraddizioni, con le loro sempre più sporadiche apparizioni nelle strade, con le loro esibizioni in concerti, programmi televisivi, internet e manifestazioni di vario genere, con le loro mantelle e cioce assurte a costume senza tempo ma con le ance di plastica, l’otre in goretex e con un repertorio che spazia dal canonico Tu scendi dalle stelle a più ricercate atmosfere colte e world, gli zampognari e zampognisti del XXI secolo fanno parte di questo processo. (Antonietta Caccia)
Quando Antonietta Caccia ci parla delle migrazioni degli zampognari non ci possono non venire alla mente le migrazioni dei suonatori di piva; non solo quelli che si aggiravano nelle provincie padane ma anche quelli che andarono in Francia, in Svizzera, negli Stati Uniti fino a quella leggendaria di Antonio Cordani, detto Ciocalapiva, che raggiunse la Svezia e vi si trattenne per oltre 1 anno.
mi accodo ai brevi interventi di Davide e di Bruno reclamando per la cultura popolare un valore che va ben aldilà della tradizione; detta così sembra voler svuotare un dato fenomeno del suo retroterra materiale e portarlo a livello di una semplice manifestazione folkloristica. Ha ragione la Caccia quando precisa che nelle migrazioni degli zampognari “si intrecciano molteplici elementi: dalla transumanza (ma parlerei in generale di migrazioni stagionali di lunghissimo periodo e dalle molteplici forme) alla pratica di questue legate a ricorrenze devozionali di vario tipo oltre che a forme di professioni consistenti nell’esercizio di attività girovaghe…”. Nel retroterra di tutto questo ci sta una cultura, anzi più culture, ed affermare che si tratta della “tradizione” significa cancellarle. La tradizione è una invenzione di qualcuno che, più o meno di recente, ha travestito dei musicisti con ciocie, tabarro e cappellaccio e li fa circolare in determinate occasioni rituali.
Rileggendo l’intervento di Antonietta Caccia e le “punzecchiature” di Bruno mi convinco sempre di più che l’uso della parola “tradizione” sia soprattutto dettato dalla esigenza di semplificazione di un un vasto insieme di concetti che andrebbero maggiormente sviluppati.
Istintivamente la parola “tradizione” non mi piace, mi richiama al vecchio, al conservativo, al nostalgico e forse è per questo che preferisco non usarlo.
nell’articolo di Antonietta ad un certo punto si dice che gli zampognari hanno coscienza di svolgere un ruolo e qui sta una delle chiavi del ragionamento: che sia la mediazione col misticismo religioso natalizio oppure il ballo nelle feste di paese il ruolo risponde ad esigenze arcaiche che si informano a culture altrettanto arcaiche, ma …….attenzione………proprio perché si tratta di culture le modalità delle manifestazioni sono in divenire e rifuggono dalla staticità che gli viene attribuita se vogliamo conservare il termine”tradizione”